Mi fa particolarmente piacere che nel GIROS si inizi a trattare di tecnica fotografica, argomento in fondo vitale per la nostra attività, ma non particolarmente sviluppato in passato. La profondità di campo, nella macro stretta, è problema antico e non facile da affrontare per noi, che operiamo in natura, esposti soprattutto a problemi di vento. Stringere molto il diaframma, in presenza di una buona fonte di illuminazione artificiale, offre una scorciatoia rapida: aumenta la profondità di campo, la brevità del lampo blocca l’immagine anche con un uragano in atto e il nostro documento è realizzato. Le foto con luce esclusiva del flash sono bruttine, gli sfondi neri, però si vede accettabilmente ciò che abbiamo ripreso. Per qualche tempo ho seguito anch’io questa strada e, poiché Nikon più 60 mm arrivano elettronicamente a F57, vi lascio immaginare le mie performance in fatto di profondità di campo. Il risultato è che mi sono trovato un archivio prezioso di macro di Epipactis anche straniere e quindi difficilmente ripetibili con una qualità ignobile per via della diffrazione ottica. Vi è una grande profondità di campo, ma in realtà è come se nulla fosse veramente a fuoco. E il bello è che, sul momento, non me ne rendevo conto: è infatti solo il confronto con ciò che è migliore a permettere una valutazione reale. Le foto vanno esaminate a piena risoluzione, senza riduzioni e maschere di contrasto: solo così si ha un’idea della qualità che potremo avere in grandi stampe. Con le riduzioni per il web si fanno miracoli, che però svaniscono alla prima necessità di stampa seria. Quando mi sono brutalmente reso conto del problema, ho iniziato seriamente a sperimentare i valori massimi di diaframma, che permettessero di ottenere, sui fiori o loro particolari, livelli accettabili di incisione e nitidezza. Effettivamente F16 è un po’ il crinale. Oltre l’immagine decade, rimanendo però utilizzabile fino a F22. Più in là è poltiglia. Vi sono situazioni di luce e di soggetto che paiono soffrire della diffrazione più di altre: riprendere il giallo biancastro di un ginostemio di Epipactis a diaframma stretto significa votarsi a una blurizzazione diffusa. Inoltre se si va oltre il rapporto 1:1 per mezzo di tubi o teleconverter occorre aprire ulteriormente il diaframma, pena una confusione invadente dell’immagine. Questa almeno è la mia esperienza, ripetutamente sperimentata e confrontata. Come risolvo allora i problemi di profondità di campo? F16-18 non offrono affatto una profondità trascurabile, soprattutto se in ripresa si studiano intelligentemente i possibili parallelismi. In casi disperati scatto due foto a F16 con fuoco diversificato (in realtà non modifico il fuoco, ma mi sposto io leggermente) e poi unisco in post-produzione le due immagini: oggi i software di focus stacking fanno miracoli. Garantito che in questo caso la PdC ottenuta è maggiore che a F32 (e anche di F57!) e con qualità nemmeno comparabile. Naturalmente parlo di foto a mano libera (spesso uso solo un comodo e rapido picchetto di appoggio), per foto di documentazione rapide, ma di buona qualità complessiva. Quando invece ricerco una bella foto, parto con cavalletto, slitta micrometrica, ombrello parasole, flash di riempimento ed uno zaino che pare soma per asini, faccio fatica, sono lento come un bradipo, ma alla fine arriva a casa qualche foto, che sarebbe impossibile realizzare di fretta, a mano libera e con luce esclusiva del flash. Sono passato a questa ottica dopo che tra centinaia di foto faticavo sempre molto a trovarne anche poche degne di essere pubblicate. La mia filosofia di oggi è quindi molte foto di documentazione, non belle ma ben esposte, pulite e nitide e pochissime foto “estetiche” di cui però si possa essere orgogliosi. Spero continui in futuro il confronto su temi fotografici, perché il tema mi appassiona e sinceramente a trattarlo oggi mi sono divertito un mondo. Con simpatia ciao Riccardo.
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